ASTA 294 - ARREDI, DIPINTI ANTICHI E DEL XIX SECOLO DA UNA DIMORA LOMBARDA E ALTRE COMMITTENZE
Lotto 296
L'opera è accompagnata dalla scheda a cura di Massimo Pirondini.
Provenienza: Già Collezione Muselli-d'Acquarone.
Christie's, 27 Novembre 1989, lotto 353, p. 126 del catalogo d'asta.
Pubblicazione: Massimo Pirondini, Luca Ferrari, Edizioni Merigo Art Books, 1999, p. 232, scheda 17.
Il dipinto (olio su tela, cm 132 x 152) raffigura il noto episodio narrato da Omero nel libro VI dell'Iliade, ove Andromaca, accompagnata dal figlio, il piccolo Astianatte, alla porta Scea della città di Troia, incontra il marito Ettore in procinto di scendere in battaglia e lo scongiura di combattere rimanendo sulla difensiva contro Achille, limitandosi a difendere le mura di Troia all'albero di caprifico, nel punto in cui esse erano più deboli. L'eroe troiano, portando la destra al petto, rammenta alla consorte il suo ruolo di sposa e di madre, ammonendola di lasciare le faccende riguardanti la guerra a lui, che, in qualità di principe ereditario, è costretto a combattere da protagonista.
Ritengo quest'opera una interessante aggiunta ed una significativa integrazione al catalogo di Luca Ferrari (Reggio Emilia, 1605 – Padova, 1654), artista della cui feconda attività sarà opportuno tracciare, qui a seguito, le tappe salienti.
Si può ben dire che Luca sia nato e cresciuto all’arte in quel fecondo cantiere che fu per Reggio, nei primi decenni del Seicento, il Santuario della Madonna della Ghiara; qui egli si mostrò attento a quanto andavano affrescando famosi maestri emiliani come Leonello Spada, Carlo Bonone ed Alessandro Tiarini . In particolare con Tiarini il giovane Luca fu assiduo, essendo, fra l’altro, documentato come suo collaboratore, nel 1627, al servizio del Duca di Modena.
Verso il 1630 egli è già, probabilmente, a Padova , ove si sposa, nel 1632, e dipinge, nel 1635, una grande tela votiva per lo scampato pericolo della peste, su incarico dei conti Papafava, fra i nobili più in vista della città. Il soggiorno padovano sarà l’avvio, per lui, al successo ed alla notorietà, consentendogli inoltre l’agevole studio dei celebri testi della pittura lagunare, quella cinquecentesca (in primis Veronese), e quella a lui contemporanea (Renieri, Strozzi, ecc.).
La sua fama indurrà i fabbricieri del Santuario della Ghiara a richiamarlo in patria (1645), ad affrescare le volte di ben due bracci del grande tempio mariano, ove andrà palesando quel felice “fiato per la grande decorazione” (come, in proposito, osserverà l’Arcangeli), fortunato esito di preziosi amalgami emiliani e veneti; e così sarà per numerose e ragguardevoli tele dipinte, in questi anni, per altre chiese e per privati committenti del ducato estense.
Ritornato a Padova (1650), Luca sarà impegnato in altre prestigiose imprese, fra cui la decorazione di Villa Selvatico Emo-Capodilista a Battaglia Terme e, in città, la maestosa pala per la basilica di Sant’Antonio, nonché i sette quadri per il soffitto della chiesa di San Tomaso, valendosi in ciò del brillante lavoro di equipe condotto con uno stretto manipolo di valenti collaboratori che diventeranno, a loro volta, pittori di rilievo, fra cui Giulio Cirello, Andrea Mantova e Francesco Minorello .
Ne derivò, dall'aver cioè lavorato in due sedi e regioni diverse, una duplice valutazione del Ferrari da parte della critica storico-artistica, ora come artista emiliano, ora come veneto, con interventi specifici sull'uno o sull'altro versante, senza una visione organica e globale; lacuna a cui ci si è proposti di porre rimedio con la prima, e finora unica, monografia sull’artista (M. Pirondini, Luca Ferrari, Reggio Emilia, 1999), che ha messo a frutto sia le ricerche condotte da diversi studiosi in terra veneta, sia le precedenti indagini in Emilia; come, ad esempio, quella nostra sulle inedite opere di Luca al tempo del suo primo apprendistato, al seguito di Tiarini, in Ghiara .
In un mio recente intervento poi, di aggiunte e nuove considerazioni sull'artista , ponevo l'accento sullo straordinario successo, negli anni della sua ultima attività padovana, di certe sue "invenzioni", talune replicate dallo stesso Luca, altre affidate in parte o in toto ai collaboratori, per far fronte alle pressanti richieste ed alle esigenze collezionistiche delle più importanti famiglie venete, ma anche emiliane, del tempo; un atelier, dunque, assai produttivo e ben organizzato, che nulla aveva da invidiare a noti esempi del tempo quali la “stanza” di Regnier a Venezia o quelle di Reni e Guercino a Bologna.
Inoltre già mettevo in evidenza tre soggetti che mi sembravano particolarmente interessanti in questo senso: Crise che domanda ad Agamennone la restituzione di Criseide, Arria e Peto ed il Commiato di Ettore da Andromaca.
Della scena che vede Andromaca, con accanto il piccolo Astianatte, nell’atto di trattenere Ettore dall’avviarsi al suo ultimo destino, conoscevo almeno tre versioni : la prima conservata a Venezia, in Palazzo Pisani Moretta ; la seconda, più ridotta nelle dimensioni rispetto alle altre due, in collezione privata , la terza, comparsa per pochi giorni all'esposizione dell'asta Christie’s, a Roma, del 27 novembre 1989, e subito ritirata dalla vendita ; opera su cui lo scrivente, nella monografia dell'artista, sospendeva il giudizio per non averla potuta visionare direttamente .
Essa è ora l'oggetto della presente scheda e di essa varrà la pena di considerare qui la provenienza, cioè dai duchi d'Acquarone, casata soprattutto nota per quel Pietro d'Acquarone che, dal 1939, fu ministro della Real Casa Savoia e, per conto di Vittorio Emanuele, fu il tessitore del colpo di Stato che il 25 luglio 1943 portò alle dimissioni e all’arresto di Benito Mussolini con la nomina del maresciallo Badoglio a capo del governo. Pietro aveva sposato Maddalena Trezza di Musella (o Muselli), ricchissima erede della società finanziaria che ebbe in appalto, dal Regno d’Italia, l’esazione di dazi e tributi in oltre 700 comuni, nonché proprietaria di Villa Musella di San Martino Buon Albergo, nel veronese.
La famiglia d'Acquarone, enormemente facoltosa, con importanti possedimenti in tutt'Italia, non mancò di interessare la storia del collezionismo, come, ad esempio, nel 1985, quando Cinzia Chantal d'Acquarone , nipote di Pietro, mise all'asta, completo di mobili, tele e oggetti di antiquariato , il castello ducale di Giove, presso Attigliano. Questo era di proprietà dei Mattei fin dal 1597, quando Ciriaco ed Asdrubale Mattei, assai noti in Roma per il mecenatismo e le prestigiose raccolte d'arte, l'avevano acquistato dai Farnese.
Altri nipoti di Pietro d'Acquarone , Zeno e Vittore, vendettero poi, nel 2016, Villa Musella , eredità della nonna Maddalena, riservandosi la proprietà di arredi e dipinti , fra cui Il commiato di Ettore da Andromaca qui considerato.
Erano questi probabilmente (e il nostro fra essi) i pezzi superstiti della collezione Muselli, una delle più prestigiose quadrerie d'Italia del XVII secolo . Raccolta da Giacomo Muselli, forse il più facoltoso mercante, a Verona, fra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo, l'eccezionale quantità di opere d'arte, prevalentemente di ascendenza veneta (Tiziano, Veronese, Turchi, Bellini ecc.), fu in seguito in gran parte alienata dagli eredi e si trova tuttora dispersa nei più importanti musei europei (Londra, National Gallery; San Pietroburgo, Ermitage; Monaco, Alte Pinakothek; Amsterdam, Rijksmuseum) ed americani (Malibu, The Paul Getty Museum; Lexington, The Art Museum; Omaha, Joslyn Art Museum).
Tornando al nostro dipinto, esso ben rientra in quel nutrito gruppo di opere prodotte dall’artista negli anni del suo ultimo soggiorno padovano, e destinate ad una committenza spregiudicata e colta: soggetti storici o letterari messi in scena con una teatralità fastosa e coinvolgente, in forme che ben rappresentano l’esito estremo del suo gusto e del suo stile.
Ciò è riconoscibile nel percorso evolutivo del linguaggio di Luca, che da una eloquenza già stabilizzata (in tempi di poco antecedenti o a cavallo del suo ritorno a Reggio) su una sorta di classicismo emiliano innescato sui preziosi sedimenti dell’arte cinquecentesca veneta, si evolve in una seconda fase attivata e determinata dalle necessità espressive dei lavori in Ghiara; ciò per le evidenti esigenze della pittura a fresco e della decorazione su grandi spazi.
Egli scompiglia via via le misurate regole ideali, seduttive e mondane, del Noli me tangere o del San Guglielmo (entrambe le tele in collezioni private reggiane) per portare alle estreme conseguenze, sui ponteggi della basilica mariana, certe rivisitazioni veronesiane, con quinte architettoniche fortemente scorciate, con una spazialità chiara ed ariosa, con un fantastico teatro di figure e personaggi in sfrenati virtuosismi prospettici e cromatici.
Sono i modi che Luca imporrà anche alla sua equipe dopo il ritorno in patria (1650), nelle imprese di villa Selvatico o di San Tomaso Cantauriense, ma che già si avvertono nel lussureggiante stravolgimento di scorci e personaggi del telero con le Nozze di Cana (Reggio E., chiesa di San Pietro), forse l’ultima opera (1649) del suo soggiorno reggiano.
Così anche nella fortunata scena del Commiato di Ettore da Andromaca, come in altri dipinti di questo proficuo momento stilistico (si veda anche l’Amore e la Gelosia dell’Ermitage di San Pietroburgo), il Ferrari sembra soprattutto voler forzare, al di là della consueta, lucida diligenza dei particolari, la logica della composizione, la sonorità dei colori, aggredendo e quasi travalicando il primo piano con la passione, l’irruenza teatrale e drammatica dei protagonisti.
La sua “pittura di storia” vuol raggiungere così, anche nei quadri da cavalletto, il massimo del coinvolgimento sentimentale, e forse furono queste opere tarde di Luca a suscitare l’ammirazione del veneziano Marco Boschini per il nostro artista. Quel Boschini che fu strenuo difensore, nella sua Carta del navigar pitoresco , di questi soggetti nella gerarchia dei “generi” e della superiorità dell’arte lagunare su tutte le altre scuole, compresa quella emiliana; ammirazione che lo portò, chiudendo i versi dedicati al pittore reggiano, a considerare folle chi (a Venezia) lo ritenesse un “forestier”, rafforzando altresì il concetto con la celebre, affettuosa allocuzione: “Va, che ti è Venezian, no ti è da Rezo”.
In attesa dell'attestato di libera circolazione.
Base d'asta: € 40.000,00
Stima: € 40.000,00 - 60.000,00
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