Asta 409 | ARTE ANTICA E DEL XIX SECOLO Tradizionale
Lotto 98
L'opera è accompagnata dalla scheda a cura di Enrico Lucchese, 14 maggio 2023.
“Due sono state le perle più grandi di tutti i tempi, entrambe le possedette Cleopatra, ultima regina d’Egitto [...]. Costei, mentre ogni giorno Antonio si rimpinzava di cibi raffinati, con un superbo e al tempo stesso sfrontato disdegno, come una regina meretrice, denigrava ogni lusso e l’apparato dei suoi banchetti; e poiché egli le chiedeva che cosa si poteva ancora aggiungere a quella magnificenza, rispose che avrebbe in una sola cena consumato dieci milioni di sesterzi. Antonio desiderava apprenderne il modo, ma non credeva che la cosa fosse possibile. Quindi, fatta la scommessa, il giorno successivo [...] fece apprestare ad Antonio una cena peraltro magnifica [...] ma di ordinaria amministrazione. Antonio scherzava e chiedeva il conto delle spese. Ma la donna, confermando che si trattava di un corollario, che quella cena sarebbe costata il prezzo fissato e che lei da sola avrebbe mangiato dieci milioni di sesterzi, ordinò di portare la seconda mensa. Secondo le sue istruzioni i servi posero davanti a lei solo un vaso d’aceto, la cui forte acidità fa sciogliere fino alla dissoluzione le perle. Portava alle orecchie quei gioielli più che mai straordinari: un capolavoro veramente unico in natura. Pertanto mentre Antonio aspettava di vedere che cosa avrebbe mai fatto, toltasi una delle due perle la immerse nell’aceto e, una volta liquefatta, la inghiottì. Gettò la mano sull’altra perla Lucio Planco, giudice della scommessa, mentre la donna si preparava a distruggerla nella stessa maniera; e sentenziò che Antonio era vinto: presagio che si è avverato”.
Il racconto di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XI, 58) è stato d’ispirazione per molti artisti dell’età barocca (cfr. A. Pigler, Barockthemen, II, Budapest 1974, pp. 396-398). In ambito veneto settecentesco, quello cui spetta l’opera in esame, la fortuna del tema fu portata avanti dagli esempi illustri di Antonio Pellegrini, nell’affresco di villa Giovanelli a Noventa Padovana (cfr. F. Magani, in “Nuovi Studi”, 8, 2003, pp. 167-180), e soprattutto di Giambattista Tiepolo nel ciclo affrescato di Palazzo Labia a Venezia e nei dipinti su tela oggi ai musei di Melbourne e di Arkangelskoje (cfr. A. Mariuz, Le storie di Antonio e Cleopatra, Venezia 2004). In tutti questi esempi, anche nel presente, l’omaggio alle Cene di Paolo Veronese è palese nella scelta delle cromie chiare e soprattutto nell’impaginazione della composizione.
Nel caso specifico, però, il richiamo al modello cinquecentesco appare influenzato nella stesura a corpo dalla pittura di Sebastiano Ricci, modulata su toni disegnativi che, a Venezia, erano connessi al magistero di pittori di gusto più classicista. Appare quindi evidente che questo Banchetto di Cleopatra sia evidente autografo di chi da giovane frequentò “la scuola del Cav. Bambini, dove apprese le buone regole del disegno, le quali, quantunque dopo abbandonasse in parte quei modi, gli servirono di buone guide per l’arte, e per essere tenuto un dotto pittore. Tentò anche di seguire la maniera di Sebastiano Rizzi; e infine formossi egli uno stile, che di tutti e due que’ Maestri partecipava; ma aveva insieme qualche cosa di originale” (A.M. Zanetti, Della Pittura Veneziana, Venezia 1771, p. 431).
L’attribuzione al veneziano Girolamo Brusaferro si può dimostrare tramite il confronto con due opere che ho discusso nel 2021: l’Ultima comunione di san Girolamo (fig. 1, in Il Secolo di Nicola Grassi, p. 84), e la Chioma di Berenice (fig. 2, in Museo Costantino e Mafalda Pisani di Trieste. La Pinacoteca della Comunità Greco Orientale, pp. 68-69 cat. 7). Come si può notare, stilemi, impaginazione e scelte coloristiche del Banchetto di Cleopatra si ripetono in questa coppia di tele: se il primo pare, al netto dei suoi problemi conservativi, accostabile alla Morte di Sant’Avertano (1736) della chiesa dei Carmini a Venezia (fig. 3: cfr. A. Pietropolli, Girolamo Brusaferro, Padova 2002, p. 81 cat. 112), il secondo, con il compagno Antioco e Stratonice, denota una materia pittorica piuttosto rappresa e alcune incongruenze compositive che orientano a una cronologia nell’ultima fase di Brusaferro, ormai ritardataria rispetto agli altri principali maestri coevi della Serenissima, attestabile con la pala del 1741 per Stabello (fig. 4), vicino a Bergamo (cfr. Pietropolli 2002, p. 83 cat. 117).
Al secondo lustro degli anni trenta sembra allora opportuno collocare il dipinto in esame, a seguire quindi la tela dei Carmini, presumibilmente non lontano dalla pala con la Madonna con il bambino e i santi Foca, Martino e Pietro per la chiesa veneziana di Santo Stefano, datata 1737 (fig. 5: Pietropolli 2002, p. 83 cat. 113), ponendosi, nella storia della fortuna del tema della regina conquistatrice del conquistatore romano, dopo il Banchetto di Pellegrini d’inizio secolo e poco prima la serie di invenzioni imbandite dal genio tiepolesco nel decennio successivo. A differenza dei colleghi che misero il giudice della scommessa a tavola tra i commensali, Brusaferro sceglie di metterlo in secondo piano, per ottemperare a principi di maggiore verosimiglianza caratteristici del suo curriculum di “dotto pittore”.
Base d'asta: € 5.000,00
Stima: € 7.000,00 - 10.000,00
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